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Il Ventennio

La cultura urbanistica italiana si accosta, negli anni del Fascismo, alla scuola tedesca cui si aggiunge una connotazione estetica.

L’idea di fondo rimane quella della città monocentrica e compatta, con densità discrete: tali sono i caratteri della città italiana che si vogliono mantenere e di fatto non esistono, in gran parte dell’Italia, massicce concentrazioni industriali da decentrare.

L’ipotesi del diradamento che dovrebbe “ripulire ed igienizzare” discretamente i centri storici, conservandone le qualità ambientali e formali, sembra la via più economica ed efficace per la riqualificazione.

Si susseguono l’esperienza di Brescia, il cui nuovo Piano regolatore nel 1928 era stato affidato direttamente a Marcello Piacentini, primo architetto dello Stato fascista, e l’esperienza di Bari condotta da Concezio Petrucci a partire dal 1931. I temi dell’urbanistica, così come si vanno affermando alla fine degli anni Venti, cercano una risposta all’esigenza di organizzare il territorio tra crescita urbana, sviluppo e conservazione.

Nel 1916 Piacentini aveva scritto «Lasciamo la città vecchia così come si trova e sviluppiamo altrove la nuova», riferendosi alla vicenda di Roma, ove invece la teoria della scuola di architettura deve di necessità lasciare il passo alle esigenze della rappresentanza politica.

I programmi edilizi promossi dal Fascismo con tempi di realizzazione propagandistici, anche al fine di utilizzare la produzione edilizia come volano per l’economia nazionale, devono riportare in ogni provincia l’immagine del governo centrale.

Nasce in questo senso un “Movimento moderno” dell’architettura, erede dell’impostazione giovannoniana.

Un’importanza cruciale, in questo dibattito, rivestiranno le nascenti riviste di architettura, con particolare riferimento a Domus di GiòPonti e La casa bella di Guido Marangoni, ambedue fondate nel1928 e che accompagneranno e guideranno lo sviluppo del linguaggio architettonico nazionale spesso in contrasto con il Regime.

Il dibattito architettonico vive un fortissimo scontro tra i giovani milanesi del Gruppo 7 (Libera, Terragni, Figini, Pollini, Rava, Frette,Larco e Castagnoli) e il MIAR (Movimento italiano di architettura razionale) da un lato, che tentano di traslare in Italia lo stile internazionale della scuola francese di Le Corbusier e dello Staatliches Bauhaus di Walter Gropius, e le istanze conservazioniste dell’architettura del Regime dall’altro.

Questa ondata di innovazione si riverbera da Roma in tutte le architetture di rappresentanza del Regime. Numerosissimi sono i progetti per il rinnovamento urbano delle grandi città italiane, in primis i piani del 1931 per Roma proposti dal Gruppo urbanisti romani capeggiato da Piacentini e dal gruppo della Burbera, guidato da Giovannoni, che affianca ad un programma per l’espansione di stampo razionale, un piano di ampi stravolgimenti per la monumentalizzazione del centro storico.

Forse l’ideologia urbana del Regime è più facilmente leggibile nell’esperienza delle città di fondazione.

Sabaudia “perla del razionalismo” incarna pienamente lo spirito dell’epoca: la città di fondazione non ha il pregresso storico che ne definisce la forma urbana, si articola pertanto secondo i principi dell’urbanistica razionale, proponendo la forma pura del sistema interconnesso di “fulcri” sociali connessi da un cardo e da una successione di assi visuali e distributivi sul quale far spiccare, ad un cardine, la torre civica e, dall’altro, il campanile della Chiesa.

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